Da sempre nella scuola italiana c’è un convitato di pietra: il corpo.
Bambini/e e ragazzi/e, durante le lezioni, che restano per la stragrande maggioranza “frontali” (insegnante che spiega in modo più o meno dialogato, interroga e valuta) restano seduti per cinque o sei ore al giorno, durante cinque o sei giorni giorni alla settimana.
Le nostre aule, d’altronde, tranne in lodevoli eccezioni non a caso denominate “avanguardie educative”, sono ancora concepite così, con una cattedra e le file di banchi, che in periodo pandemico sono diventati anche monoposto. L’uso del corpo in movimento è relegato alle ore di educazione fisica, un paio alla settimana, spesso concentrate di seguito, anche per consentire gli spostamenti nelle palestre dai plessi che ne sono sprovvisti.
Da un anno a questa parte, il corpo ha ricevuto il colpo di grazia definitivo nel campo dell’insegnamento/apprendimento. Già guardato con sospetto da sempre, costituendo ora il veicolo principale di trasmissione virale, nelle classi si è cercato di bloccarlo e circoscriverne il più possibile gli inevitabili movimenti: complice la cronica carenza di spazi e i protocolli rigidi, ai bambini delle elementari, che in gran parte hanno continuato a frequentare in presenza, è stato raccomandato di restare fermi e seduti anche durante la ricreazione, di evitare di mangiare e parlare con il vicino di banco, mentre spariva dal curricolo scolastico tutto l’armamentario di uscite didattiche che, almeno in piccola ma significativa parte, rendevano il territorio un’aula decentrata da scoprire, indagare, esplorare.
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